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«Non era più tua», ha detto lui, «L'hai buttata via senza neanche pensarci, sei
andato a ficcarti in tutte le trappole che potevi trovare».
Ha fatto scorrere la vetrata: un'onda di aria umida e rovente mi è venuta addosso,
mi ha fatto quasi indietreggiare.
E uscito, e l'ho seguito fuori, nella luce spietata.
Ha detto: «I libri sono di chi li legge, Roberto. Non li puoi chiudere in una
cassetta di sicurezza».
«Dunque non occorre neanche scriverseli da soli», gli ho detto, sopraffatto dal
caldo. «Tanto vale farli scrivere da Bedreghin o dalla Dalatri o da qualunque povera
vittima idiota capita a tiro?».
Polidori guardava la città battuta dal sole; ha detto: «Bedreghin e la Dalatri sono
degli scrivani. Non fanno niente di più. Mi evitano solo di usare una penna».
«Perché, è troppa fatica?» gli ho detto».
«Si», ha detto Polidori. «E una vera fatica».
Mi ha guardato, adesso eravamo sudati tutti e due; ci dovevano essere
trentaquattro gradi almeno, novanta per cento di umidità.
Ha detto: «Cosa pensi? O non pensi niente?».
«Penso che sei un bastardo», gli ho detto. «E che sei ambiguo. Che sei intriso di
ambiguità come tutti i bastardi che in ogni campo si mangiano questo paese .Dici un
sacco di cose e poi fai il contrario di quello che dici, e tanto peggio per chi ci ha
creduto».
Lui ha sorriso, ha detto: «Ma è la vita che è ambigua, Roberto. Ti gira intorno e
si insinua in ogni piega e scivola via. Non è come avere a che fare con un
interlocutore di cartone piantato di fronte a te. Se vuoi puoi crearti delle
semplificazioni, ma diventa una specie di balletto stilizzato. E naturalmente ci sono
casi in cui la ragione o il torto sono quasi inequivocabilmente da una parte, ma sono
rari. I motivi si confondono, i torti e le ragioni si incrociano di continuo».
Gli ho detto: «E una visione del mondo che mi fa schifo. E il modo migliore per
lasciare tutto com'è, giustificare le vigliaccate peggiori. E una visione da ladri e da
assassini».
Poi sono tornato dentro, nell'aria fredda e rarefatta, sono andato lungo il corridoio
e fuori dalla porta, e non mi sembrava di avergli detto nemmeno un centesimo di
quello che avrei dovuto dirgli; non mi sembrava di aver avuto nessuna soddisfazione,
o recuperato niente di quello che avevo perso.
Sono rimasto a Roma, nello stomaco gonfio e avido dell'Italia come diceva
Polidori.
Trastevere mi piaceva, sembrava un piccolo paese dentro una città; conoscevo
già quasi tutti i negozianti, mi salutavano quando passavo. A volte inventavo percorsi
strani per evitare di incontrare Maria, ma non sempre; a volte non ci pensavo, o mi
sembrava di non pensarci. Il venti di giugno Il principio della trappola concentrica
era già in testa a tutte le classifiche di vendita dei giornali principali. Oscar Sasso
aveva scritto una recensione entusiastica, dove diceva che Polidori era riuscito a
rinnovarsi in modo sorprendente e aveva aperto una nuova stagione nella sua opera. I
suoi colleghi gli sono andati dietro a gregge, con belati di sorprendente e
straordinario.
Polidori si è esposto con molta misura, come al solito: ha fatto poche apparizioni
alla televisione, rilasciato poche interviste. Il trenta giugno mi sono licenziato da
360, appena chiuso l'ultimo numero. Il cinque luglio mi ha telefonato dalla Spagna
l'assistente di Rocas, ha chiesto a che punto ero con il mio libro, le ho detto che stavo
parlando con qualcuno alla porta, se poteva richiamarmi nel giro di un quarto d'ora.
Sono andato avanti e indietro per il soggiorno dalle finestre telate, e mi chiedevo se
la mia nuova vita era finita, o avevo ancora qualche possibilità di scampo. Mi
chiedevo se ero diventato per sempre un piccolo pappagallo letterario ambizioso e
sorvegliato, o la mia era una trasformazione reversibile. Poi ho pensato che Polidori
mi aveva fatto perdere una moglie e una innamorata e il mio primo romanzo, ma in
cambio mi aveva lasciato abbastanza sentimenti scoperti da scriverne un altro,
questo,
FINE.
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